sabato 12 giugno 2010

Mondiali




Qualsiasi italiano che non viva in una grotta ha qualche ricordo legato ai mondiali. Non si tratta di patriottismo retorico, di notti magiche e scordiamoci i nostri problemi. La vedo più come una cosa del tipo –tu dove ti trovavi quando Schillaci ha fatto quel gol? E durante la finale con la Francia?
Qualcosa che ci dà il segno del tempo senza farci deprimere troppo come i compleanni.
Che ci piaccia o meno, il calcio fornisce le tappe della nostra Storia più dei trattati, delle lotte politiche, delle conquiste sociali. È avvilente, se ci si pensa. Ma poi parte la musichetta della mondovisione e ci dimentichiamo tutto.
Anch’io ho i miei ricordi. Coi Mondiali, come tutti, ci sono cresciuto. Oltre Italia ’90 ricordo nitidamente quelli del ’94 in America, noi tutti seduti sempre nella stessa posizione in casa, mio nonno che chiudeva il bar quando c’era la partita, e quella semifinale con l’Argentina di Maradona quando la luce se ne andò nella fottuta Liuzzo e noi ammassati in macchina a seguire i rigori alla radio. Eravamo ancora bambini, e poi improvvisamente adulti ci ritrovammo a casa mia, nel ’98, a fare il tifo e a fare finta che non fossimo di maturità, e anche indietro di una vita sul programma. Le partite erano un’ottima scusa per non fare un cazzo. Il caldo e l’autoerotismo facevano il resto.
Stava per cambiare tutto. Ancora poche settimane dopo la finale giravamo per le vie di Parigi ancora tappezzate di pubblicità sui mondiali passati. Era un momento folle, veloce, decisivo. Tutto poteva cambiare. Non vedevamo l’ora.
Di quelli del 2002 invece ricordo poco perchè stavo morendo, semplicemente. Passavo le mie giornate in una stanza vuota a ripetere. Ero di esame, ancora una volta. Non me ne importava niente, nè degli esami, nè del resto. Le partite erano il mio ultimo pensiero. Davanti a me c’era Roma arsa da un caldo mai visto. Mi sembrava impossibile che sei milioni di persone avessero deciso di venire a vivere in quell’incubo d’aria condizionata. C’era da uscire di testa. Sudavo l’anima da tutti i pori, assieme alla birra da due soldi. Parlavo col ventilatore, che mi seguiva anche al cesso. Non c’era scampo. Guardavo le partite da solo, sul letto, con DUE ventilatori puntati addosso e ancora sudavo sangue. Ogni tanto qualcuno urlava nel pozzo luce. Io alzavo un po’ più il volume. Quando l’Italia perse con la Corea non stavo guardando la partita. Ero in uno scompartimento di intercity con tre suore sudamericane e un vecchio pazzo. Stavo tornando a casa. Solo, non sapevo quale delle due.
Tanto non faceva differenza.
Anche l’estate del 2006 fu particolarmente calda, ma lo sentii meno. Forse perchè in casa avevamo un piccolo condizionatore che scorreggiava fuori un po’ d’aria fresca, di tanto in tanto. Forse perchè stavolta le partite le seguivo e ci scommettevo sopra. Ricordo la partita inaugurale, Italia-Ghana. Ci trovavamo a casa di un nigeriano. C’erano un australiano, uno spagnolo, un tedesco, un inglese, oltre me Mauro e il padrone di casa. L’Italia vinse e io beccai 50 euro dalla Snai.
Forse fu il gruppetto multietnico con cui ci radunavamo in un pub irlandese a piazza Venezia, con gli australiani incazzati per quel rigore di Totti e noi che cantavamo popopopopopo e ci lanciavamo nella sera che scendeva con in mano una birra e la testa sgombra.
Forse fu il fatto che non stavo morendo più. Forse fu quell’australiana dai capelli biondi e gli occhi verdi che avevo incontrato poco prima di quella partita.
La sera giravamo per Roma, che sembrava speciale in quelle notti di giugno. Incontravamo sempre gente nuova. Ci doveva essere un altro cambiamento. Forse era la volta buona.
Dopo la finale, che vedemmo al Circo Massimo in mezzo ad una bolgia che può capire solo chi c’è stato, io e Mauro tornammo a piedi da lì fino a casa nostra sulla Tiburtina. Fu un viaggio lungo, epico, scandito da Tennent’s sudate e risate e coretti e cazzeggio di quelli che capitano ogni 24 anni. Arrivammo a casa quasi all’alba, stanchi morti. Misi la sveglia lo stesso, perchè la mattina dopo avevo un’appuntamento. Dovevo rivedere la mia australiana. L’Italia era campione e la mia vita cambiava ancora e faceva un altro giro sotto la curva.
Ora mettila anche tu la sveglia, socio. Lì gli orari sono un po’ sballati. Ma poi, otto e mezza di sera o quattro e mezza di mattina, che importa? Basta essere lì, a non pensare a niente almeno per quei 90 minuti. A sentirci nella stessa stanza, nello stesso Paese. A far finta che siamo ancora bambini, ragazzi, quasi adulti. Meglio se con una Tennent’s.
Buona partita, socio.
Aspetto lo squillo al calcio d’inizio.






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